martedì 27 marzo 2012

Buone visioni

Biutiful (di A. G. Inarritu)
"Dei figli si prende cura l'Universo". Doloroso, sottile, senza fine.

I sospiri del mio cuore (di Y. Kondo, scritto da H. Miyazaki)
Fiaba colorata e tranquilla, musicale e sognante.

Breaking Bad, III stagione
Intelligente, ironica, ottima serie: non si può perdere!

The Walking Dead, II stagione
Una serie senza prendere fiato, va giù come un Novello, commerciale nel senso migliore del termine (d'altronde con tali mezzi e, soprattutto, con una tale fonte...)

Eden Lake
Ansia, ansia, ansia! Ottimo film se volete "divertirvi" in compagnia di miseria, violenza, devastazione e tortura.

Ecco, è tutto. Non snobbate i link dei titoli dei film, sono (quasi sempre) buone presentazioni dei prodotti.


martedì 13 marzo 2012

Dissidenza, forza e generazione di dubbi

Saviano racconta il suo inizio attività nel (secondo me) unico quotidiano che vale il suo costo e che ora, come ormai siamo quasi abituati a sapere, rischia di chiudere: Il Manifesto. Lettura e sottoscrizione caldeggiate!



giovedì 8 marzo 2012

Janos nella Balena


Janos
L'umano nella Notte
Cammina sveglio:
In scena l'Eclisse

Niente voci
Né Edera sui muri
Solo Passi e Fiati
Fatali

Strade di calce, infinite
Linee alte dello sguardo
Lamiere sulla Piazza
Frigidi falò

Principe Nano, Balena che Non Ingoia

Giona

Follia Sommersa
Massa, Sommossa.
Armonia degenere,
Come un'Eco lontana, vicina
Simbolo e Materia
Musica

Il profeta non rinasce
Di Morte è Grazia pura




Poesia in forma di recensione del film, bellissimo e pieno di fascino, di Bela Tarr "Le armonie di Werckmeister" (link al blog della recensione di Eraserhead, che mi ha fatto conoscere Tarr)

lunedì 5 marzo 2012

Ti penso, ti sogno, ti guardo

Questo lungo e un po' anomalo post è stato ideato, progettato e realizzato da due teste e quattro mani: il sottoscritto e l'amica Rita Ciatti, curatrice del blog Il Dolce Domani: a lei va il mio sentito ringraziamento per l'impegno, l'acume, la straordinaria energia e la fiducia dimostrati. Per il resto...Bando alle ciance e buon viaggio!

 Esistono “film che danno l'impressione di vivere un'esperienza reale?
Prendiamo spunto da un commento ad un post sul film Enter the Void, per ipotizzare un percorso a tappe, grossolanamente cronologico, tra film ricordati per aver provocato un potente coinvolgimento catartico, secondo un meccanismo proiettivo ed empatico, nel gioco della rappresentazione.
“Ma - afferma l'estensore del commento - questo si potrà dire di ogni film riuscito: ogni visione è un'esperienza (in senso letterale e metaforico). Ma ci sono film che più ci hanno toccato, dando l'impressione di averli proprio… sentiti sulla pelle.”
Abbiamo allora un elemento oggettivo (il film riuscito, lo diciamo senza perderci in arzigogoli congetturali per spiegare cosa intendiamo) e uno soggettivo (siamo stati toccati, abbiamo sentito sulla pelle).
Il cinema si presenta come esperienza sensoriale a partire dall’ingresso nella sala proiezioni: quando le luci si spengono è come se perdessimo il contatto con il mondo esterno e ci predisponessimo a precipitare in un’altra realtà, quella della finzione, resa oggi ancora più suggestiva dai progressi tecnologici (basti pensare al 3D). 
Racconta un aneddoto storico che durante la proiezione del primo film della storia del cinema, L'Arrivée d' un Train en Gare de La Ciotat dei Lumière, pare che alcuni spettatori si siano spaventati, incapaci di distinguere tra verità e rappresentazione. La condizione indispensabile per poter godere dell’esperienza cinematografica è la cosiddetta sospensione dell’incredulità, la cui realizzazione dipende non solo dallo spettatore, ma dalla qualità intrinseca - coerenza narrativa anzitutto - dell’opera: non importa che sia vero, importa che possa esserlo.


Il patrimonio esperienziale di ognuno - il proprio vissuto - ha un ruolo essenziale; ma ci sono film o generi cinematografici che, per tematica o approccio, nascono per diventare cinema di esperienza reale: sono quelli più vicini agli archetipi primordiali, alle emozioni viscerali, a sentimenti e pulsioni atavici. 
Nella mia esperienza personale ci sono stati film vissuti come esperienze realmente accadute. Opere che mi hanno trasformato, offrendo prospettive inedite di sguardo sul reale e regalando suggestioni talmente dense da poterle sentire, ancora oggi, vive sulla pelle.
La prima di queste fu Shining del Maestro Stanley Kubrick, capolavoro visivo in grado di suscitare, grazie a scrittura, montaggio, fotografia, musica e potere creativo insuperabili, il sentimento del perturbante(vedi NOTA 1), scuotendo sin nel profondo e lasciando impresse sensazioni difficilmente descrivibili



Avevo dodici anni quando lo vidi la prima volta al cinema (la visione era vietata ai minori di 14 anni, ma riuscii ad entrare comunque). Ricordo la sensazione di essere come precipitato in una realtà altra in cui vigono leggi diverse dalle conosciute, un affacciarsi inconsueto sugli abissi del mio inconscio, una perdita del controllo del sé entro i territori labirintici e oscuri della mente: una scoperta, una rivelazione, una visione inedita di immagini sotterranee, remote e, al tempo stesso, familiari. Nei giorni a seguire tutto, nella mia mente, si mescolò; le notti - soprattutto la prima - i sogni amplificarono ed aggiunsero nuovo materiale all’esperienza, in un tutto indistinto ma estremamente vivido e toccante. Del resto, ricollegandoci al discorso iniziale, se Shining non per-turbasse oggettivamente a dodici anni, soggettivamente ci sarebbe qualcosa di cui cominciare a preoccuparsi.
Qualche anno dopo, ai tempi del liceo, fu la scoperta del cinema di Pasolini a segnarmi profondamente, aprendomi a percezioni, attenzioni, sensibilità sconvolgenti, terribili e magnifiche.
Tra i suoi film quello che, letteralmente, mi trapassò fu Porcile: io ero Julian, ero Ida, ed ero anche la sterminata colata lavica su cui vagava l'affamato Antieroe del Passato, ero i maiali, ero i cannibali. Con Pasolini entrai nella Storia e nel Dopostoria, sempre con l'odore della polvere, di Matera, del Golgota, nelle narici e l'amore per la vita a strapazzarmi il cuore. I volti, quelli degli ultimi, poveri e divini nel bianco e nero della pellicola (come, anche se in modo diverso, accade per esempio nei film di Kaurismaki), venivano fuori dallo schermo e, sulle note di un Bach, sulle scie antiche dei ricordi e delle origini, quello era puro Amore. Quelli erano i miei volti, i volti dei fratelli, degli Ultimi, sempre gli stessi, erano i miei avi, vivi, nei gesti, nei tratti, nell'inquietudine e nella gioia più intima, cellulare. Con Pasolini il cinema divenne quello che per me è ancora oggi: un prezioso compagno di Vita, una Fonte di bellezza e stupore.

 


Proseguendo con la lista dei film a forte carica esperienziale, è obbligatorio citare uno dei più grandi registi - anzi, direi artista tout court - in circolazione, ossia il mitico David Lynch; è vero, per lui servirebbe un post a parte ma, sintetizzando, si potrebbe dire che ogni suo lavoro sia un'esperienza, visiva, onirica, psichica, metafisica. I suoi film sono vere e proprie incursioni nei territori dell'inconscio e del sogno, brandelli di paesaggi intimi in cui le consuete coordinate spazio-temporali svaniscono in visioni sostitutive di fatti ed eventi divenuti in qualche modo inaccettabili. Dovessimo scegliere quale film ricordare in questa sede, punteremmo su Mulholland Drive, vero cinema-esperienza a 360°: all’epoca della prima visione, uscito dalla sala, ebbi l'impressione di aver fatto uso di sostanze psicotrope. Eppure Mulholland Drive è un film che racconta una storia estremamente lineare, semplice, drammatica e disperata, pur se ricostruita - grazie ad un montaggio sapiente - al pari di un sogno e arricchita di simbolismi, rimandi e digressioni inconsci, restituiti sullo schermo attraverso una visionarietà letteralmente onirica.


Un incubo ad occhi aperti prende vita da una comune storia di fallimento personale a sua volta parabola della spietatezza del sistema hollywoodiano e metafora paradigmatica di certi aspetti della società americana. Lynch è insuperabile nella capacità di raccontare come la malattia possa corrodere e deturpare dall’interno la “normalità” del quotidiano.
Ma torniamo ai tempi del liceo per la prima esperienza di cinema in senso più videoartistico e metanarrativo.
Per un breve periodo frequentai in modo attivo gli affascinanti spazi ex industriali di un centro sociale appena occupato. Periferia nord di Milano, gruppo Breda. Un’esperienza culturalmente innovativa rispetto agli “standard” dei csoa dell’epoca, l’incontro con menti interessanti, spesso lontane dal “baronato” culturale e relazionale cui faceva riferimento la fetta più consistente di quel mondo. Per dare un’idea del posto, oltre al felice incontro con il minimalismo potente dei film di Reggio che mi accingo a raccontare, le attività più frequenti che ci svolgevo sono state: realizzare installazioni per rave party; prendere a martellate oggetti abbandonati o recuperati, soprattutto televisori; pulire in mezzo alla lana di vetro.
Venendo al dunque, fu organizzata una serata con proiezioni di Koyaanisqatsi e altri film e corti minimalisti, con musiche originali o contributi musicali diversi (dj o live). I filmati erano proiettati al massimo delle dimensioni su intere pareti della sala, la musica proposta all’unico volume possibile: altissimo. L’impatto fu grandioso, fertile nei sensi e nella mente. 


Non volli andarmene prima di aver avuto giuramento di una cassetta con le musiche della serata. Chi conosce le opere di Reggio, sequenze di immagini in movimento secondo i “canoni” del minimalismo a braccetto con le note appassionate di Philip Glass, sa di aver scoperto un nuovo livello di significati ed esperienze per la parola ipnotico. Viaggio a spirale verso l'essenza, visceralmente etnico nella rappresentazione mitica, totemica e allucinata (iperaccellerata, iperrallentata, micromodificata nel brulichio palpitante, nei volti, nei materiali) del trip rappresentato da ogni giorno passato su questa Terra, Koyaanisqatsi, e il superbo corto Anima Mundi (nel video sopra è la versione integrale) in particolare, divennero visioni privilegiate e ripetute per lo “sballo” assicurato (e non si pensi -solamente- alla droga, nonostante l’esempio di Otto dei Simpson che accompagnò l’ingestione di funghetti allucinogeni con il dvd di Koyaanisqatsi, infilato nella fessura di una pietra).
A proposito di sostanze: l’unica volta che andai al cinema fatto fu per la visione di 2001: Odissea nello spazio. Versione integrale con i (quattro?) minuti di buio all’inizio sulle note di Ligeti. Minuti in cui il nero (o meglio dire la nigredo?) assurge a cornice e contenitore di qualunque cosa. E lo schermo del cinema era quello, mitico, dell’Arcadia di Melzo (495 mq: allora, il più grande del mondo).
Ma 2001: Odissea nello spazio è, con o senza stimolazioni chimiche, un'opera che si presta in pieno ad essere vissuta come esperienza.


Ricordo lo sgomento provato di fronte ad un viaggio nel tempo e nello spazio senza un termine noto: immagini in grado di suscitare una sensazione di angoscia per la consapevolezza di un universo-grembo materno infinito. Un'esperienza al confine tra il puro terrore e l'estasi che emerge dall'accettazione, dalla capacità di lasciarsi andare e farsi letteralmente assorbire dalla materia dei suoni, dei colori, delle forme.
Un altro regista capace di trasferire sullo schermo tutto il processo di un'esperienza - inteso anche come coinvolgimento totale degli attori - è Lars von Trier, sul cui metodo di lavorazione è stato detto di tutto e di più.
Pare che per ottenere una determinata espressione, un preciso sguardo, una particolare ombra sugli occhi, Von Trier costringa gli attori a sedute di terapia ("gli artisti devono soffrire, il risultato è migliore") al fine di suscitare in loro sentimenti e reazioni utili alla riuscita di una specifica scena.
Un’esperienza che mi segnò fu la visione di Dancer in the Dark, per me talmente intensa e disturbante che alla fine, proprio sulla scena dell'impiccagione di Selma, ho dovuto alzarmi ed andarmene, incapace di sopportare oltre, percependo, ad un livello sensoriale mai sperimentato prima, il senso di un'ingiustizia, di una violenza fisica, di una rabbia cieca accompagnata alla completa impotenza. Quel finale giunge tanto più feroce quanto - in contrasto - lo spettatore abbia ancora davanti a sé la straordinaria Bjork-Selma che intona "I've seen it all".




Dancer in the Dark è un film straordinariamente graffiante, urticante, capace di suscitare reazioni contrapposte di rabbia e pietà, bellezza e violenza, ingiustizia ed accettazione del dolore. Senza contare l'intelligenza e la pertinenza nell'utilizzo dei codici del musical in un film di questo genere: io nemmeno sapevo, alla prima visione, che si trattasse di un musical. Quando, con gradualità, i rumori della fabbrica e i gesti degli operai si scoprivano armonizzati in una coreografia pop-industriale, trattenni il fiato per la sorpresa e la bellezza, fino ai titoli di coda. Un colpo del genere, negli ultimi anni, me l'hanno dato solo i grandi film di Lynch, Cronenberg (il capolavoro A History of Violence), Tarantino (Le Iene, Bastardi senza gloria), Gummo di Korine e Hana-bi di Kitano. Dopo la visione non si è più gli stessi: la catarsi è avvenuta.
Dancer in the Dark non fu né la prima né l'ultima opera in cui il regista danese si è ispirato agli stilemi - narrativi, ma soprattutto emozionali - del teatro classico. Qui basti ricordare lo splendido Medea e la coppia down che assolve alla funzione del coro greco in The Kingdom, oppure all'abitudine di dividere i film in capitoli ed atti, quasi si trattasse di ripercorrere tempi di rappresentazione teatrale, e all'originalità della scenografia di Dogville, di chiara ispirazione brechtiana.
L'ultimo atto di grande cinema-esperienza di Von Trier, segnato dallo strapazzo per aver “pisciato fuori dalla tazza” a Cannes* (vedi NOTA 2), si trova nel crescendo del finale - teatrale più che cinematografico - di Melancholia, parabola sulla depressione d'animo, e forse anche sociale, intrecciata a più livelli con il divenire e il deflagrare Cosmico.


Un'operazione metacinematografica in cui l'unica possibilità di riscatto è affidata al recupero di una dimensione ludica e, per estensione, alla finzione del cinema. Fin dai primi fotogrammi - meravigliose immagini del prologo al rallenty, come nel precedente e gigantesco Antichrist - l'ultimo lavoro dell'artista danese rende lo spettatore partecipe di un graduale crepuscolo dell’animo mentre il pianeta Melancholia si avvicina alla Terra.
Il regista è stato cacciato dal festival e Melancholia è passato un po' in sordina, riuscendo a portarsi a casa solo il premio per la miglior attrice (Kirsten Dunst). Ma a noi tutto questo non importa, Melancholia è un capolavoro, con o senza l'approvazione dell'ingessato pubblico di Cannes (ricordiamo che anche alla presentazione di Crash di Cronenberg, altra esperienza memorabile, ci fu chi gridò allo scandalo).
Arrivati a questo punto, è doveroso citare Terrence Malick, l'unico regista contemporaneo in grado di competere con Kubrick per tematiche e perfezione stilistica.


La Sottile Linea Rossa non è un film sulla guerra, è un film sull'esperienza della guerra come metafora per raccontare visivamente la realtà mistica della vita e della morte, il contatto con il Tutto Cosmico e il raggiungimento di una dimensione metafisica (fuori da ogni concezione religiosa) attraverso la percezione sensoriale.
Malick, da sempre, non fa che un unico film, ogni volta declinabile in una storia e in un contesto diverso: l'esistenza come ricerca spasmodica di congiunzione con il Tutto. Nel suo ultimo capolavoro, The Tree of Life, l'autore porta a compimento l'obiettivo: per gli spettatori si tratta di una visione-esperienza dove il micro diviene macro e viceversa, la rappresentazione dell'origine e fine del Cosmo è percezione sentita e partecipata della stessa fiammella di Luce che lo spettatore avverte dentro sé. Ogni film di Malick è esplosione di Luce, esplosione di quella consapevolezza vivificatrice che permette di abbandonare l’ego per congiungerci al Tutto dal quale proveniamo.


Questo è anche l'argomento di un altro recente film-esperienza, Enter the Void, l'ultimo lavoro del regista franco-argentino Gaspar Noe.
Il distacco dal corpo, secondo quanto racconta il Bardo Thodrol, il Libro dei Morti tibetano, contempla una fase durante la quale lo spirito ripercorre la propria esistenza, passata e non solo, vagando nel mondo dei vivi senza però poterli contattare.
Ma il viaggio di Oscar, il giovane protagonista del film, è cominciato prima e non solo attraverso l'utilizzo, feroce e proficuo, di sostanze per vedere meglio, ma proprio come vita stricto sensu. La macchina da presa piazzata dietro gli occhi, finché Oscar respira, è come il vetro della finestra dietro cui l'ego partecipa, inserendosi nello spettacolo delle cose. Dopo il trapasso, visuali verticali, eteree o dietro la nuca: l'avventura dell'esistenza materiale è, per ora, terminata, gli eventi scorrono fissi ed analogici.


La morte è l'inizio di una nuova vita, ma lo è tutti i giorni, perlomeno se c'è consapevolezza dei molteplici stati di coscienza (nella nostra cultura si tratta di potenzialità atrofizzate in favore dell'esaltazione del livello mentale più razionale e superficiale) non così diversi da quelli provati in utero o post mortem. Enter the Void non solo mostra, ma trans-porta, in una dimensione di Vuoto che è, insieme, Pieno. Un’esperienza totale.
Concludiamo questo lungo percorso un po’ biografico con un film che segna la storia del cinema, imponendosi nella sua compiutezza, innovazione ed altissima densità di contenuti. Opera (anche, ma non come gli altri) incessante, rotatoria e complessa, Faust di Sokurov prende lo spettatore per le spalle e lo scaraventa in un mondo sospeso tra epoche, in cui l’Opus alchemico che si affaccia sul mondo moderno è il veicolo della ricerca del senso. 


Faust è perturbante, multisensoriale, trasmette sguardi, pensieri, colori e soprattutto contatti ed odori. E’ un viaggio claustrofobico nell'inferno della materia corporale, albergo di malattia e decadimento, preda di pulsioni ingovernabili e desideri insaziabili: la vera condanna non è l'incontro con la morte, ma una vita senza termine appesantita dai patimenti dell’ego e del corpo. A livello formale il film di Sokurov è un crogiuolo di inquadrature sghembe, colori spenti, corpi fetidi aggrovigliati in contrasto con una Natura incantata, a segnare il confine tra lo scorrere armonioso dell’esistenza non umana e l’artificiosità e la bruttura della vita di noi "sapiens".
E’ sulle immagini di un capolavoro assoluto che apre le porte del cinema e dell’arte su incoraggianti prospettive di sviluppo che chiudiamo questo post, augurandoci che sia stato anch'esso un viaggio-esperienza in quel mondo di sogno e realtà, materia e proiezione, che tutti amiamo.



*NOTA 1 “Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare” , Sigmund Freud, Il perturbante, 1919

* NOTA 2 Von Trier, sopravvalutando l'intelligenza e l'acutezza della stampa e dimenticando di trovarsi al centro di un establishment culturale coi fiocchi, si è lasciato andare ad alcune dichiarazioni prontamente strumentalizzate per fare un po' di caciara.
Dopo aver espresso un parere favorevole sull'architettura di Speer, attivo durante il Nazismo, avendo colto imbarazzo del pubblico al solo pronunciarne il nome (eppure nei corsi di cinema universitari si studia, ad esempio, la Riefensthal, valutandone proprio gli aspetti estetico-formali utili a veicolare un messaggio sociale e politico attraverso una rappresentazione artistica, e questo senza che chicchessia venga tacciato di provare simpatie naziste), Von Trier è entrato nel pallone, e ha aggiunto che si può comprendere Hitler, specificando l'uomo Hitler, ossia l'essere umano, espressione della malvagità della Natura. Sappiamo, infatti, dai suoi film, cosa pensi della Natura: "Chiesa di Satana" in Antichrist, ciclo interminabile di nascita-distruzione-morte, condanna ineludibile in cui dare la vita significa condannare a morire - "sento il pianto di tutte le creature che sono destinate a morire" - vita come manifestazione tumorale su un Pianeta malvagio - "la Terra è malvagia" (Melancholia); a quel punto, una stampa sempre più imbarazzata ed incapace di comprendere la complessità del pensiero dell'artista danese, avrebbe iniziato ad inorridire e a digrignare i denti. Di conseguenza, il nostro, resosi conto di essersi infilato in un ginepraio e prendendo in prestito la figura retorica dell'antifrasi (questa sconosciuta), ha affermato: "ebbene sì, io sono nazista". Ovviamente intendeva esprimere l'assurdità di un simile pensiero (soprattutto per chi è di madre ebrea). Il regista ha poi specificato che è contrario alla politica israeliana, ma che questo non significa essere antisemiti. Non serve una gran finezza mentale per comprendere il messaggio.